Rock News
24/02/2021
Boys Don’t Cry, il secondo singolo dei The Cure esce il 15 giugno 1979 e racconta la storia di un ragazzo che ha perso la speranza di riconquistare l’amore perduto di una ragazza e prova senza riuscirci a nascondere le proprie emozioni perché, come dice il testo scritto da Robert Smith: “I ragazzi non piangono”. «Al tempo eri costretto a non mostrare alcun tipo di sentimento o debolezza, ma io da giovane non potevo fare a meno di esprimere ciò che provavo» ha detto Robert Smith «Non ci ho mai trovato niente di imbarazzante, se non mostri te stesso diventi un cantante noioso».
Un brano che è diventato la dichiarazione di un genere musicale che prenderà il nome di "dark" ma anche di un’idea di musica come sensazione condivisa e rivendicazione di un modo di essere diversi in una società rigida come quella inglese di fine anni ’70. Ma quando i The Cure hanno cantato Boys Don’t Cry sul palco del Pyramid Stage di Glastonbury 2019, 40 anni dopo, Robert Smith ha realizzato quanto sia diventata una canzone senza tempo: «Era incredibilmente contemporanea» ha detto in una intervista a Rolling Stone ripresa dal magazine Ourculturemag, «La pressione di conformarsi ad un modo di essere non è mai cambiata».
I The Cure sfatano il mito dell’invulnerabilità maschile, ironizzano su quanto quello stereotipo (“i ragazzi non piangono”) sia radicato e costruiscono un mattone dello spirito dark, un modo di mettere in musica le sensazioni negative create da qualsiasi tipo di repressione, emotiva, sociale o di genere. Un impatto culturale importante per una canzone pop lunga solo due minuti e mezzo, ma i The Cure nel 1979 anche se sono esordienti sono già una band consapevole e ispirata: «Silenziosamente arroganti» come ha detto Robert Smith in un’intervista del 1987, «Non ero arrogante come Morrissey, ma convinto di quello che stavo facendo, nonostante la mia timidezza». Gli elementi che rendono Boys Don’t Cry così importante anche dopo 40 anni sono il testo profondo in contrasto con la musica leggera («Il pop non è mai stato una brutta parola per i The Cure» ha detto il bassista Lol Tolhurst) che accentua il tono ironico e la capacità di Robert Smith di creare con poche strofe una scena quasi cinematografica in cui chiunque la ascolti finisce per immedesimarsi con il protagonista e la sua sensibilità. Non a vaso, nella prima recensione fatta da Rolling Stone USA di Boys Don’t Cry del 1980, uscita nell’edizione americana del primo album dei The Cure Three Imaginary Boys, si legge: «Se Robert Smith dovesse mai decidere di lasciare il rock&roll, ha davanti a sé una grande carriera come sceneggiatore di film»
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